ENERGIE RIBELLI E PERIFERIA: IL DIALOGO DELLA NUOVA CITTA’

Queste cose che racconto non sono una mia invenzione ma è il modo di operare di Araba Fenice con la sua costruzione sociale e culturale credendo nelle “energie ribelli”, cioè in quelle energie che si vorrebbero appartenenti al linguaggio di degrado, disordine, deprivazione dei diritti  delle periferie.

“Energie ribelli”, l’ultimo libro di Emma Viviani, inaugura un nuovo modo di concepire le periferie delle nostre città, o meglio di come affrontare il disagio sociale, in particolare nel rapporto tra l’uomo e il suo spazio materiale di vita: non più concepire le periferie come aree del rifiuto e delle vite di scarto, ma quale grande occasione per rifondare il senso del vivere comune, ossia della città.

Centro e periferia distinzione classica, sulla quale Emma ha lavorato e lavora con la competenza ed esperienza del lavoro sul campo: una  distinzione ereditata dalla città industriale; ora le città sono profondamente cambiate: l’urbanizzazione diffusa, le grandi conurbazioni hanno cambiato quel peculiare rapporto di spazi e tempi, ma la dualità centro-periferia rimane come una modalità corrente di strutturazione del territorio.  Non più un unico centro circondato dalla periferia, ma molti epicentri con molte periferie. Ossia il rapporto centro-periferia  si riproduce come per generazione spontanea. Come giudicare questa modalità di strutturazione del territorio? Sempre negativa, oppure c’è per così dire nella fisiologia di tale fenomeno urbano un dato di necessità, nel bene e nel male, non eludibile ? E quale atteggiamento di azione e di valori assumere in relazione a tale fenomeno spaziale sociale culturale?

Per partire con la riflessione, potremmo invocare il paradigma ambientalista: nella formulazione termodinamica ogni sistema funziona tra due sorgenti di calore:una ad alta temperatura e una a bassa temperatura. Il combustibile entra nella sorgente ad alta temperatura, nel percorso verso la seconda sorgente l’energia scambiata produce lavoro, infine scarica nella sorgente a  bassa temperatura calore e disordine. Nel percorso l’energia si degrada, cioè perde la capacità di produrre lavoro. In un sistema termodinamico con un  bagaglio energetico iniziale di cento, solo una quota parte si trasforma in lavoro. Nell’esempio classico della macchina a vapore, solo il 38% delle energie iniziali (il carbone) si trasforma in lavoro. Il restante 62% si scarica all’esterno, cioè nell’ambiente, come calore a bassa temperatura; si produce cioè un fenomeno di “dissipazione”, ossia di dispersione dell’energia. Ѐ il fenomeno dell’entropia                    (=  trasformazione). La dissipazione non è il prodotto di una  “perdita” del sistema, di una insufficienza che può essere corretta, ma è la condizione perché la macchina funzioni, cioè produca lavoro.  Anche la biosfera funziona come un perfetto sistema termodinamico, che lavora tra una sorgente energetica, il sole, e i serbatoi di scarico, cioè l’universo esterno. Anche il nostro corpo funziona come una perfetta macchina termodinamica. Anche il territorio funziona come una macchina termodinamica.

Il rapporto centro-periferia possiamo assumerlo come una modalità del rapporto sistema-ambiente, perciò pensarlo come un dato genetico della formazione di un ecosistema, principio d’ordine spazio-temporale di un territorio.

In pratica il rapporto sistema-ambiente si può sintetizzare così: per effetto dell’entropia “l’ordine nel sistema produce disordine nell’ambiente”. Riprendendo il rapporto centro-periferia  si può fare l’affermazione: l’ordine nella città provoca il disordine nella periferia. Basta pensare agli interventi di ristrutturazione dei centri storici con la formazione di periferie povere e di slums, per rendersene conto.

Le energie dissipate vanno irrevocabilmente perdute? No, si possono recuperare. Abbiamo uno splendido esempio di recupero delle energie “dissipate”. Il rapporto città-campagna della storia che ha fatto le nostre città. La città ha scaricato i suoi rifiuti, non solo liquidi, ma anche umani, nella campagna che tuttavia li ha rigenerati in quelle energie senza delle quali non ci sarebbe stata neppure la città della nostra storia.

La periferia viene in genere concepita in termini di degrado, di povertà di vita, di luoghi privi di cultura, ricchi di comportamenti violenti.  Si tratta di uno stereotipo, non perché la periferia non sia povera, confusa, non abbia violenze, ma perché nasconde l’altra faccia dello specchio:  nella periferia le energie costruttive di ordine, socialità, cultura, in una parola di equilibrio sociale  e benessere, sono assai meno disponibili che nei luoghi centrali; intendendo con questo termine non tanto un centro geometrico, ma i luoghi dove si concentra il potere, la ricchezza,

l’informazione. Luoghi dunque dove si afferma la hybris della disuguaglianza.

Nella periferia si concentrano, come in tutte le aree di insediamenti urbani, due fattori essenziali della vita urbana e territoriale, congeniali  alla natura delle città: l’ordine e il disordine. Ma, appunto, le energie “ordinatrici” nell’ambiente di periferia sono povere e talora assenti. Prevale il disordine, potremmo dire il caos, intendendo con questo termine la povertà di relazioni ricche di senso, cioè produttrici di valori simbolici: la mancanza di luoghi vivibili, gli agglomerati precari, la povertà di servizi, l’isolamento urbanistico, la speculazione fondiaria ed edilizia, le violenze portate e subite; ma caos è anche la vita che vorrei definire  brada cioè errante, senza meta, alla ricerca di espedienti per coprire il vuoto interno ed esterno  di presente e di futuro.

Ѐ questo, a mio giudizio, il vero problema del vivere urbano oggi: dare senso al caos delle periferie. Occorre costruire il senso nuovo della periferia. Restando nell’antinomia ordine-disordine, occorre costruire un nuovo ordine. Ma che cosa dobbiamo intendere con questo termine, dare ordine alla periferia?

Prendiamo ancora brevemente in considerazione le energie dissipate:

quando il sistema termodinamico (anche l’ambiente si è detto è un sistema termodinamico) evolve oltre il limite della regione lineare, il sistema ‒ che ora chiamiamo “dissipativo” – acquista particolari proprietà: nascono fluttuazioni, cioè deviazioni microscopiche che si possono ampliare a dismisura invadendo tutto il sistema, cioè soglie in cui il sistema diventa irreversibile e capace di differenti forme di auto-organizzazione che insorgono a partire da successivi punti di biforcazione: nella esperienza chimico-fisica il sistema diventa improvvisamente blu , poi  diventa tutto rosso, poi di nuovo blu. “Per cambiare colore le molecole hanno bisogno di “comunicare”. Il sistema deve agire come un tutto. Il sistema si struttura come se ogni molecola fosse informata dello stato complessivo del sistema (Prigogine)” (1)

Questo ci interessa perché le città sono sistemi altamente dissipativi e le periferie  per conseguenza si caricano di entropia che spinta appunto oltre i limiti della regione lineare può produrre differenti forme di auto-organizzazione, che partono da punti di biforcazione. Ma trattandosi in questo caso di un eco-sistema e non di una sistema chimico-fisico che evolve spontaneamente, occorre introdurre il lavoro dell’uomo e le finalità  antropiche dell’ecosistema sociale.

Alla base del lavoro in periferia dobbiamo perciò mettere l’azione e le “verità” della periferia, cioè di quelle persone che una sociologia valorosa, e cui appartiene Emma, definisce come gli esclusi, gli scarti del sistema; un sistema che inquina, emargina, aumenta le distanze tra chi ha e chi non ha. Questi scarti, tali proprio perché esclusi dal sistema, sono le energie che Emma ha definito “ribelli” perché non coincidono con quelle del centro, anche se non sono ad esso estranee. Sono anzi in quel rapporto sistema-ambiente sopra menzionato, che le rende essenziali alla città. Come fare a costruire il linguaggio di periferia e le sue “verità”? Anche qui ci viene in aiuto il lavoro e l’esperienza di Araba Fenice e la Weltanschauung della periferia di Emma.

Dobbiamo renderci conto che essere dalla parte della periferia, cioè della “dissipazione” energetica, ci mette di fronte all’importanza del “pensiero periferico”, che non è un pensiero “meno”, ma un pensiero “”altro”. Non è un pensiero anti-urbano . Ѐ anch’esso pensiero urbano, ma non una copia di quella del centro.

Questo è un concetto importante che in qualche modo lo possiamo immaginare implicito in una grande costruzione culturale: nel teorema della incompletezza di Gödel , che ci dice due cose che possono esserci utili per lavorare socialmente in periferia:

1) che ogni sistema – noi diremmo ogni sistema sociale ‒ è semanticamente incompleto, cioè esiste un enunciato vero, che chiamiamo

“verità”, che il sistema principale non può dimostrare[1] (ad esempio: nel pervasivo e onnipotente sistema neocapitalistico e finanziario odierno, l’affermazione “se vuoi essere felice devi escludere l’uso del denaro”, tale enunciato il sistema principale non lo comprenderebbe (non è dimostrabile), nondimeno è “vero”, a certe condizioni. Diremmo che se il sistema principale è il centro, l’enunciato citato può essere quello della “verità” della periferia, perfettamente legittimo ed anzi necessario, proprio perché il centro non può risolvere in  modo autoreferenziale la sua verità; e,

2)   la coerenza di un sistema non è provabile dal suo interno[2]. Questo toglie qualunque presunzione di completezza al sistema principale, nel nostro caso al sistema del centro. Prende valore ciò che deborda dal sistema, ciò che noi consideriamo appunto un enunciato di “verità”, che non si può verificare dentro il sistema principale. Tutto questo dunque sostanzialmente per rallegrarci di essere in periferia, cioè  dentro un osservatorio naturalmente critico del centro, anche se il centro resta indispensabile.

Emma dice cose semplici e chiare, fra loro fortemente connesse, la sua critica è radicale al modo in cui vengono gestiti i servizi nelle periferie con la mentalità e la cultura del centro: tecnocratica, funzionariale, burocratica.

Costruire l’ordine: dobbiamo pensarlo come la costruzione della cultura nel senso più profondo: dei valori e dei comportamenti della convivenza, in cui il fuoco dell’azione sia concentrato nella ricerca della relazione che unisce individui e gruppi in progetti comuni che riguardano il senso del vivere associato, cioè il senso della costruzione di una comune cittadinanza. Sentirsi “operatoti cittadini” era, quando lo incontrai, e resta, il termine identificativo del gruppo di Araba Fenice – una cittadinanza costruita con intelligenza, avendo riguardo a connettere tutto quello che in periferia è disconnesso o meglio aspetta di essere connesso con forza e con

dolcezza di senso.  Connettere non solo la relazione interpersonale, ma  le “cose” della periferia: il prato, la panchina, i percorsi pedonali, i luoghi di incontro, le aree abbandonate o del degrado. Perché le cose sono pensieri, emozioni fra persone, costruiscono la gioiosità della relazione interpersonale, come scoperta comune dello spazio “riuscito”, veicolo di un senso nuovo della relazione che unisce.  La vita urbana delle nostre città, quando “riuscita” ‒ in termini di valori di convivenza  e socialità (giustizia, uguaglianza, nonviolenza, pace) – è stata, e resta ancora, esempio generatore di schietti momenti di felicità. “Si sta bene”, “si vive bene” , “ci si sente a casa” quando l’ambiente è “riuscito”, in cui cioè la relazione dialogante e l’azione operante (pensare e fare insieme) si uniscono con ricchezza di senso e di partecipazione. Quando ci si incontra per “fare insieme” qualcosa che risponda ad un bisogno comune, ad un senso dell’esistenza cercato nel disordine del’ecosistema e non ancora trovato. Ma sappiamo che c’è quel “bene comune” da scovare  e  dipende soltanto da noi portarlo alla luce e costruirlo.

Queste cose che racconto non sono una mia invenzione ma è il modo di operare di Araba Fenice con la sua costruzione sociale e culturale credendo nelle “energie ribelli”, cioè in quelle energie che si vorrebbero appartenenti al linguaggio di degrado, disordine, deprivazione dei diritti  delle periferie: energie “dissipate”, come si diceva, del processo termodinamico, trascurate e dimenticate e quasi sempre compresse e  addirittura combattute,  ma energie vive, vitali, capaci di operare per un ordine “altro” rispetto all’ordine troppo stereotipato delle centralità dominanti, esclusive ed escludenti, del centro. Siano pure quelle dei supermercati con la loro dovizia di cibi e di oggetti,  capaci di moltiplicare  i prodotti e di differenziarli, ma non in grado di costruire il “nuovo”, la relazione che unisce e dà la gioia del vivere insieme per costruire un nuovo modo di abitare la vita quotidiana, nella costante, rispettosa, aperta, ancorché  non scevra di conflitti, forte e coraggiosa, accettazione reciproca. Quella realtà che un tempo si chiamava comunità e che oggi si può chiamare ricerca della città, cioè di un sistema  aperto di vita comune in cui si concentrano le energie e la cultura di nuove solidarietà di cittadini, non chiuse ma aperte al mondo, cioè alla “comprensione” delle diversità, a partire da quelle  di vicinato.

L’auto-progettazione nel mondo di Araba Fenice è il metodo per far nascere bisogni “veri”, coerenti alle pratiche della vita quotidiana, alle aspirazioni di ciascuno e di tutti . Progetti che chiamano in causa il lavoro che definiamo artigianale, perché ciascuno deve mettere dentro al suo piccolo capolavoro riuscito (questa è la condizione) il senso della  città, cioè della relazione che unisce e scambia non solo dentro al proprio gruppo, ma con altri gruppi, anche lontani: perché la città è relazione, pensiero e linguaggio da costruire insieme, con libertà, nonviolenza, creatività, con l’impegno, fondamentale oggi, di comprendere  la diversità. Produrre insieme il pensiero e lo spazio: se questi due aspetti li separi non hai il “pensiero periferico”, ma quello, troppo spesso logorroico persuadente rutilante, del centro.

Costruire i simboli della nuova cultura: che è la cultura della periferia, interagente col centro, ma innovatrice di senso rispetto ai valori e alle modalità del centro.

Così tutto può cambiare. E cito la frase di Michelucci che Emma pone in apertura del suo bel libro Energie ribelli:

“Vorrei che anche le cose, lo spazio che ci circonda, fossero abitati da una sensazione di partecipazione perché allora realizzeremmo davvero quel sogno della nuova città che mi porto dietro da sempre e che non è altro luogo, ma lo stesso luogo, la stessa situazione ch possa essere vissuta in un altro modo, in un’altra dimensione di relazioni e sensazioni. Solo allora possono nascere le piazze, le strade, le voci della nostra infanzia; non come qualcosa che ci sta dentro, ma come qualcosa che ci accompagna per costruire il nuovo, senza paura di perderci.

Prof. Silvano D’Alto – Architetto e sociologo

[1] I. Prigogine, I.  Stengers, La nouvelle Alliance, trad. it.  La nuova alleanza, Torino, Einaudi, 1981/1999, p. 165..

2 V. F. Berto, Tutti pazzi per Gödel!, Lateeza, Bari, 2010,p.59.

3 F. Berto, Tutti pazzi per Gödel!, Lateeza, Bari, 2010, p.60

Il Prof. Silvano D’Alto presenta il libro “Energie ribelli” di Emma Viviani all’assemblea nazionale di sociologia ANS
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